“Misteriosa e ineffabile profondità”. Queste le parole usate da Leonardo Sciascia per descrivere il moto interiore provato di fronte al preziosissimo quadretto Per il Gattopardo, pastello realizzato da Piero Guccione come omaggio al celebre romanzo di Tomasi da Lampedusa.
Poliedrico artista siciliano, Guccione nel corso della sua carriera nulla ha concesso alle mode del momento, alle tendenze prevalenti, alle ricerche sperimentali preferendo portare avanti un percorso pittorico di pura luce, senza contingenze, ai confini del mondo.

Ferrara dedica al maestro una personale dal titolo Mistero in piena luce che si tiene dal 7 ottobre 2022 al 8 gennaio 2023 presso il PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea. La mostra, nata da un’idea congiunta di Vittorio Sgarbi e Lorenzo Zichichi, è curata da Vasilij Gusella ed espone circa 80 dipinti che ripercorrono il cammino artistico di Guccione, dagli anni Cinquanta fino ai lavori della maturità del 2014, e sono divisi in due grandi sezioni: “Gli anni a Roma” e “Il Ritorno in Sicilia”.

Nato a Scicli nel 1935, appena ventenne Guccione si trasferisce a Roma dove entra in contatto con i pittori neorealisti, stringendo un sodalizio artistico in particolare con Vespignani, Attardi, Calabria, Gianquinto e Farulli – insieme ai quali fonda il collettivo “Il Pro e Il Contro” – e dove conosce Renato Guttuso di cui è assistente presso l’Accademia di Belle Arti.

Dopo un primo periodo trascorso nella Capitale lavorando come grafico pubblicitario, intorno la seconda metà degli anni Cinquanta Guccione muove i primi passi nella scena culturale italiana, dipingendo alcune vedute romane ed episodi di vita quotidiana dal gusto decisamente espressionista. Opere quali Paesaggio Romano (1957) e Macelleria (1960) si fanno notare tanto per la vivacità delle tinte e le ampie campiture quanto per la pastosità delle pennellate. Predilige un gesto libero e l’uso di tagli insoliti o forme geometriche che restituiscono una figura leggibile solo nel momento in cui si allontana ragionevolmente dal quadro, come nel caso di Rondini, Uomo in Giardino del 1962 o di alcune vedute quali I Giardini e i Balconi dove la disposizione dei piani e i grumi di colore rimandano alla conoscenza di Cézanne. Tuttavia Guccione rifiuta fermamente una pittura programmatico-moralista, e dopo un esordio che sembra strizzare l’occhio alla coeva produzione artistica votata alla “non oggettività”, nel corso degli anni Sessanta chiarisce in maniera inequivocabile la sua posizione estetica sulle pagine del periodico «Mondo Nuovo» affermando: «Nell’attuale momento, due sono le possibilità di scelta: il compiacersi in un gusto impotente di tipo idealistico oppure la volontà di rendere attiva la propria coscienza nei confronti della società e della realtà. Quanto a me ho scelto la seconda». Il panorama figurativo del tempo era infatti dominato dalle declinazioni astrattiste e informali, ma a queste Guccione preferisce la realtà visiva del quotidiano, perseguendo da questo momento una strada del tutto personale.

A Roma Guccione porta avanti per circa un decennio una ricerca estetica con cui tradurre in pittura la fisicità e la pienezza dell’ordinario, dietro al quale l’occhio dell’artista vede e mette a nudo una straordinaria vitalità. Sulla tela bianca prendono forma gli scorci della periferia romana segnata da muri screpolati, inferriate e dalle prime antenne televisive che puntellano i tetti della città. Parallelemente nasce il ciclo di opere dedicate ai Riflessi (1965-1971) e la serie Attese di partire (1969-1970) un delicato racconto sulla malinconica condizione di coloro che aspettano di andar via o di fare ritorno. I protagonisti di queste tele sono uomini e donne di cui si scorge l’ombra, il profilo appena accennato o ancora sono ritratti attraverso grandi vetrate e inseriti in contesti di assordante silenzio e solitudine, quasi a ricordare certi paesaggi metafisci o l’iperrealismo delle vedute notturne di Hopper. La realtà che ci mostra l’artista non è parte di una narrazione, non ci si aspetta che qualcosa stia per accadere: si tratta piuttosto di un frammento cristallizato, una fotografia che immortala la sensazione provata dall’autore in un dato momento.

Anche la serie de i Riflessi merita una certa attenzione, in quanto il pittore si trova a dover far convivere dentro lo spazio del dipinto due elementi contrastanti come la consistenza plastica di alcune materie specifiche – la lamiera, la carrozzeria della macchina, il vetro, i finestrini – e la delicatezza della natura che su questi elementi si rispecchia.

La produzione artistica di questi anni mette in evidenza come Guccione avesse assimiliato e fatta propria la lezione espressionista che caratterizza i suoi esordi figurativi. Tanto gli autori che si muovono nell’alveo dell’Espressionismo quanto Guccione vogliono dare corpo alle proprie emozioni, ma mentre i primi stravolgono e quasi brutalizzano la realtà, il secondo la esistenzializza, trasferendo su di essa il proprio vissuto e restituendone un’immagine che è reale e personale allo stesso tempo.

Verso la fine degli anni Settanta Guccione torna in Sicilia e vi resterà fino alla sua dipartita nel 2018. La città gli sta stretta, sente il bisogno di tornare nel luogo dove tutto ha avuto inizio, di riannodare le fila di una vita lasciate in sospeso. Il pittore compie quasi un viaggio allegorico nelle vesti di un novello Ulisse alla ricerca delle proprie radici per scoprire poi che il fine ultimo della partenza è il ritorno. Gli anni siciliani coincidono con la necessità di approfondire ulteriormente il rapporto con la realtà e di rendere più immediato il suo lavoro. Inizia pertanto ad usare il pastello, che Guccione considera quasi un “proseguimento del braccio” perchè è la gestualità che modella e plasma il racconto visivo senza l’utilizzo di altri mezzi di supporto, come si ha modo di osservare nella delicata evenascenza di opere quali Per il Gattopardo (1987), La Grande ombra su Noto (2010) e nella carnosità de Il Carrubo di Sampieri (1983-84) in cui il tratto deciso provoca una ferita sul supporto, secondo la lezione di Burri o Fontana.

Venuti meno i turbamenti vissuti a Roma, quando ancora annaspava alla ricerca di una propria cifra stilistica e poetica, a Scicli Guccione si libera delle contingenze e ricerca l’assoluto che lui identifica «nell’infinità immobilità del cielo e nella continua mobilità del mare». Un dualismo difficile da superare che richiede diversi tentavi, nonché settimane o mesi di lavoro prima che il pittore potesse dirsi soddisfatto. Torna alla pittura – mezzo espressivo prediletto – e inizia a dipingere le vedute marine che osserva ogni giorno dalla sua finestra ed è così che nasce Le linee del mare e della terra (1974-1985), La fine dell’estate (1994-2011) un ciclo di quadri in cui il lirismo degli sterminati spazi di sapore leopardiano si coniuga con la consistenza delle cose: «Se dipingessi il mare come si dipinge il mare, se dipingessi il nero come si dipinge il nero, finirei col dipingere un quadro, mentre io vorrei che questa immagine fosse una pura emozione». Sembra di vederli dal vero quei cieli azzurri che si fondono col frangersi delle onde, di osservare da lontano, portando una mano sulla fronte, la luce accecante dei tramonti che scompaiono dietro evanescenti linee d’orizzonte, attimi di brevità quasi impalbabile resi immortali dal gesto pittorico. Mentre raffigura il reale, Guccione dà forma ai suoi “stati d’animo” il che ci riporta alla memoria l’impresa pittorica di Boccioni, con la differenza sostanziale che l’autore futurista predilige il movimento e la concitazione, in Guccione regna al contrario il silenzio e l’immobilità. All’artista siciliano non interessa più restituire un dato figurativo ma creare immagini che rimandano a un altro da sé. Egli porta agli estremi l’insegnamento di Cézanne e Morandi, spingendosi a cercare la coincidenza tra reale e ideale, fenomeno e noumeno, in un processo che ha il sentore di sacralità.

Noemi Madonna per MIfacciodiCultura