Edgar Allan Poe (Boston, 1809 – Baltimora, 1849) fu l’autore che, nei propri racconti, seppe descrivere meglio di ogni altro la sensazione dell’angoscia. Questa volta uso il termine “angoscia”, in luogo di “paura”, in quanto più vicino ai contenuti proposti da Poe: è, infatti, più incisivo e direttamente collegato sia al lato fisico, che a quello psichico, del timore. “Angoscia”, dal latino “angere”, stringere, rimanda infatti a una sofferenza corporea, oltre che a un disagio psicologico: angoscia è il respiro che manca, ma è anche è l’immagine di uno spazio che si restringe, schiacciando chi si trova al centro. Ed è proprio questa situazione che troviamo nel racconto Il pozzo e il pendolo (The pit and the pendulum) di Edgar Allan Poe, pubblicato nel 1842.

I panted! I gasped for breath!

Ansimavo! Ero senza fiato!

Edgar Allan Poe ritratto in un dagherrotipo

Edgar Allan Poe riesce a comunicare l’angoscia al lettore attraverso narrazioni ricche di lunghi passaggi descrittivi e forti di un’attenzione introspettiva, ovvero tutta concentrata sul corpo e sulla mente del protagonista.

Il testo è, dal principio alla conclusione, un’elaborata illustrazione del terrore umano e delle sue cause. In questo caso, la causa primaria dei disagi del protagonista è la prigionia, ma soprattutto la perdita del controllo su se stesso e sul proprio corpo: egli ormai è in balia dei carcerieri, che possono decidere della sua vita e della sua morte. Il protagonista si trova a Toledo ed è appena stato condannato dall’Inquisizione spagnola: probabilmente, lo aspettano torture e la morte; mentre lo osserviamo, si trova in un luogo non ben definito, uno spazio di non-vita, un limbo in cui è privato di libertà e di riferimenti alla realtà del mondo esterno. Apparentemente non succede nulla, ma il suo terrore si produce nel prefigurarsi ciò che di tremendo gli potrebbe accadere tra un giorno, un minuto, un secondo.

Trovarsi in questo ambiente provoca in lui innanzitutto l’ottundimento dei sensi. La cella diventa il suo spazio mentale. L’ultima cosa che egli ricorda del mondo reale sono le parole dei giudici; poi lo svenimento, o meglio, il senso del nulla, «the state of nothingness», nel quale i sensi si intorpidiscono e lo abbandonano quasi completamente. Ed è proprio quel “quasi” il problema: riuscire a sentire qualcosa, ma non tutto; riuscire a cogliere la realtà solo in piccole parti, non potendo così avere piena consapevolezza di ciò che sta accadendo attorno.

Edgar Allan Poe – The Pit and the Pendulum – copertina dell’edizione Penguin

In secondo luogo: la paura del buio. In assenza di luce non possiamo capire dove siamo, né cosa abbiamo intorno. Il prigioniero è preso da un vero e proprio horror vacui, in quanto ciò che lo atterrisce non è tanto la prospettiva di qualcosa di orribile, quanto quella di non vedere nulla («I grew aghast lest there should be nothing to see»). Partono dunque i suoi tentativi per cercare di comprendere, al tatto, la grandezza e la forma della sua umida cella – cella che inizialmente descrive come una vera e propria tomba. Per superare la propria angoscia, cerca in maniera compulsiva di dare una misura allo spazio che lo circonda: 100 passi, dunque 50 yarde. Questa occupazione lo tiene impegnato, in un’alternanza incessante di stati di sonno e veglia, tra i quali il confine è spesso labile.

Il prigioniero, pian piano, ricostruisce la forma e il contenuto della cella, scoprendo i due strumenti di morte che essa contiene. Il primo è un pozzo in cui ha rischiato di cadere e destinato alla tortura e all’uccisione dei prigionieri. È infatti il pozzo delle lame, simbolo dell’inferno a cui gli eretici sono destinati. Il secondo è il pendolo, che porta all’estremità una lama acuminata e percorre una lenta, ma inesorabile discesa verso il corpo del protagonista, che si trova a questo punto legato a terra con alcune corde.

Egli è ormai certo di essere destinato alla morte, anche se, tuttavia, non sa dire quando. Il pendolo, infatti, si avvicina, ma non in maniera costante e uniforme. Il pendolo, come è esplicitato nello stesso racconto, è una figura del Tempo che scorre: chi parla sembra alludere al pendolo che scandisce il tempo di tutti noi, e che, lentamente, ci conduce alla fine.

Quelle ore solitarie del prigioniero sono riempite, oltre che dal buio, dall’odore di acciaio e dalle vibrazioni del pendolo, che sembra quasi respirare ed essere vivo nel suo moto temibile e incessante. Quando il prigioniero riesce a liberarsi dalle corde, evitando la condanna a morte del pendolo, sopraggiunge un’ulteriore complicazione angosciante: il progressivo schiacciamento della cella. Il passaggio in cui il protagonista descrive la sensazione di soffocamento dovuta al restringimento delle pareti rimanda a ciò che provano le persone che soffrono di claustrofobia, ovvero al panico provocato dalla visione di uno spazio chiuso che collassa su se stesso.

Edgar Allan Poe, Il pozzo e il pendolo, illustrazione

Ed è qui che torniamo al senso di angoscia e di agonia (che, guarda caso, hanno la stessa etimologia) di cui abbiamo parlato all’inizio. Ogni dettaglio – abilmente descritto dall’autore – riempie i sensi del protagonista di disgusto e terrore, fino a farlo sentire completamente sopraffatto: un odore soffocanteA suffocating odour pervaded the prison!»); un bagliore accecanteA deeper glow settled each moment in the eyes that glared at my agonies!»); il rosso del sangueA richer tint of crimson diffused itself over the pictured horrors of blood»). Le cause della paura si mescolano con le sue conseguenze, senza soluzione di continuità: il calore e la febbre; il restringimento della cella e la mancanza di respiro; il vapore rovente e il pianto, le urla di disperazione the agony of my soul found vent in one loud, long, and final scream of despair»).

In questo racconto, la realtà storica si confonde con l’immaginazione e il vivido scenario descritto dal narratore immerge lo stesso lettore in un limbo dei sensi, dove non si riesce più a cogliere la differenza tra ciò che veramente accaduto e ciò che è solo suggestione. Ma è la grande metafora sottesa, ovvero la rappresentazione della mente umana, sede delle sensazioni e della vita stessa, come una prigione spietata da cui non si può evadere, a rendere questo testo un capolavoro della letteratura del terrore.

Arianna Capirossi per MIfacciodiCultura